Periodicamente, nel settore del trasporto aereo ci sono degli eventi che causano dei veri e propri crash del sistema aeronautico mondiale. Esempi di questo tipo sono la guerra del Golfo del 1991, l’attacco alle torri gemelle del 2001, la crisi finanziaria del 2008 e in ultimo la pandemia COVID, che ha stravolto letteralmente il modo di volare dell’umanità. Oltre ai crash, ci sono stati anche dei rallentamenti nella domanda di viaggia aerei, come le crisi finanziarie, le epidemie locali, qualche guerra che chiude gli spazi aerei, il vulcano islandese dal nome impronunciabile che causò il blocco dei voli dall’Inghilterra fino a Malta.
Oggi, nel pieno della pandemia COVID, possiamo fare un primo bilancio della situazione del traffico aereo commerciale.
Da Gennaio a Luglio 2020 sono 7,5 milioni i voli cancellati nel mondo.
La domanda generale è in calo del 54%, mentre il revenue è sceso di 419 miliardi di dollari (-50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente).
Questi sono i dati che compaiono sulla home page del sito IATA e anche le stime per il prossimo anno prevedono un recupero di poco più della metà dei passeggeri che hanno viaggiato nel 2019, anno che ha un concluso un quinquennio di forte espansione del trasporto aereo. Gli ultimi anni avevano visto le compagnie aeree fare profitti come mai prima nella storia dell’aviazione, con ritmi di crescita cinesi.
Scrivo queste parole oggi, 11 Settembre 2020 e penso a come 19 anni fa il trasporto aereo fu stravolto da un altro evento tragico: l’attacco alle torri gemelle. Anche in seguito a quei fatti il settore entrò in una grande crisi che comportò la perdita di migliaia di posti di lavoro e il peggioramento delle condizioni lavorative nel comparto. Vediamo le conseguenze di crisi così profonde per una particolare figura professionale del trasporto aereo: il pilota.
I piloti hanno garantito questi alti profitti, ma soprattutto standard di sicurezza elevatissimi. Ma sono anche coloro che nella loro professione hanno pagato un prezzo altissimo in termini di qualità della vita e degrado delle condizioni lavorative.
Non voglio sostenere che questo degrado sia stato dovuto solo a quell’evento tragico. Ma se fino a qualche anno prima c’era una sorta di “rispetto” per la professione, in seguito, anche forse per la legge del mercato, la moltitudine di piloti rimasti senza lavoro ha permesso a dirigenti senza scrupoli di imporre condizioni lavorative sempre peggiori.
- pay to fly, cioè piloti che pagano per lavorare e conseguire le abilitazioni
- orari di servizio sempre più spesso programmati ai limiti di legge, come se la parola limite evocasse un concetto di normalità.
- Poca discrezionalità su alcune decisioni fondamentali che impattano l’economia del volo come ad esempio quantità di carburante da imbarcare.
- Pressioni organizzative molto forti anche a causa del diffondersi di piloti che volano senza essere dipendenti della compagnia, ma come lavoratori in proprio, quindi fortemente ricattabili.
- Nessuna protezione sociale,
- Continui cambi di sede lavorativa
- Stipendi sempre più bassi
- Turnover nelle compagnie aeree sempre più marcato.
Qualcosa negli ultimi anni, quando la necessità di piloti era maggiore, stava cambiando in positivo.
Ma la situazione odierna, l’emergenza COVID, con l’intera flotta mondiale a terra, pone delle sfide enormi in quanto per la sopravvivenza di molte compagnie aeree, soprattutto di grandi dimensioni, avanti davanti a noi la prospettiva di una ripresa debole, molto lunga ( si parla almeno di 3 o 4 anni) e anche difficile da intercettare.
Molto è stato fatto in termini istituzionali, con fondi e prestiti fatti per superare questo tragico momento, ma inevitabilmente la crisi sta colpendo con forti riduzioni anche il personale delle compagnie aeree e di conseguenza anche i piloti, che a migliaia stanno perdendo il posto di lavoro, con la terribile prospettiva di non rimettersi ai comandi di un velivolo per qualche anno.
Vi sono aspetti peculiari da considerare quando una scure del genere cade su una categoria così particolare. Innanzitutto perché sono state inaugurate da alcune aziende modalità barbare su come decidere chi licenziare: infatti molte compagnie aeree hanno deciso di licenziare per primi quei piloti che erano stati assenti per malattia, anche grave, e tutti quei piloti che avevano in qualche modo mostrato poca aderenza alle politiche di compagnia.
In alcuni casi, alcune compagnie, hanno licenziato per offrire lo stesso lavoro in un paese extra UE per usufruire di limiti di servizio più alti rispetto a quelli europei, continuando però ad operare in Europa. Oppure offrendo contratti con remunerazioni quasi azzerate e uno stravolgimento pesante delle regole contrattuali.
C’è una pagina interessante sul sito dell’European Cockpit Association, titolata Hall of Shame, che riporta un istantanea di tante pratiche definite anti-equipaggi messe in pratica dall’inizio dell’emergenza COVID e stupisce vedere come non solo piccole compagnie, ma anche colossi europei sia leisure che low cost, compaiono in questa vergognosa lista.
Quello che appare evidente è che per i piloti si affaccia un ennesimo periodo molto duro, dove molti ancora perderanno il posto di lavoro e nessuno di loro troverà sarà ai comandi di un velivolo, ma saranno costretti a riciclarsi in altre professioni, laddove possibile. Molti, probabilmente, sono professionisti persi per sempre. E anche chi continuerà a lavorare si troverà ad affrontare una situazione di grande precarietà, con un management che approfitterà della crisi per ottenere costi minori.
Questo ultimo aspetto ha poco a che vedere con l’emergenza, la quale invece avrebbe suggerito una riduzione di ore di lavoro e di stipendi, ma con lo scopo di tenere la maggior parte di individui nel sistema.
Invece, proprio come dopo l’11 Settembre, si è colta l’occasione di togliere voce e dignità lavorativa ad un gruppo di professionisti, che in un settore come il trasporto aereo, uno dei settori motore dell’economia, è una delle risorse centrali e non un male necessario.
Occorre a questo punto domandarsi se stiamo precipitando in un baratro medievale fatto solo di scelte manageriali dettate dall’opportunità e avulse dal contesto di operazioni ad alta complessità ed alto rischio qual è il trasporto aereo.
Cosa rimarrà nella memoria delle migliaia di piloti che stanno subendo queste vere e proprie ingiustizie? E cosa ci sarà nella testa dei pochi “sopravvissuti” che terranno il posto di lavoro a condizioni spesso impossibile e al limite del denigratorio? Quale pilota avrà più il coraggio di non volare se malato o unfit to fly, così come peraltro sarebbe obbligato dalla normativa? Quale equipaggio avrà il coraggio di prendere decisioni contingenti che ritiene più sicure, ma che vanno contro ai desiderata del top management, sapendo che queste azioni lo potrebbero far finire nel mirino dei prossimi licenziamenti?
Ci sono alcuni eventi nella storia dell’aviazione in cui le pressioni e la cultura organizzativa hanno costituito concause che hanno portato ad incidenti gravissimi: pensiamo alle pressioni che avvertiva su di sé l’equipaggio del volo KLM a Tenerife nel 1977, preoccupato di far cancellare il volo. O all’incidente di Dryden nel 1989, dove l’instabilità lavorativa, le differenti culture organizzative, l’eccessivo ricambio del personale, il morale basso e la bassa motivazione del personale portarono alla morte di 24 persone.
Partendo dal presupposto che la crisi COVID, per quanto lunga, non durerà per sempre, che la domanda tornerà a crescere e molti di questi piloti disoccupati torneranno a volare, qual è lo scenario che ci troveremo davanti? Quello di gente ai comandi dopo anni di inattività, privo di fiducia nel sistema, conscio di dover aderire ad ogni costo alle politiche aziendali, costantemente precario e senza una visione del futuro?
Vale la pena per questo settore anticipare le minacce che questa situazione porta con se o va fatto meramente un discorso di bilanci e budget?
Cinquant’anni di Human Factor e di studi approfonditi, saranno ancora una risorsa a cui attingere per mitigare questi rischi?
Considerando quanto poco le aziende di trasporto aereo sono inclini a spendere già da tempo per una situazione concorrenziale estrema, non c’erano e a maggior ragione non ci saranno, margini economici per garantire un adeguata erogazione dell’addestramento né un attenzione alle problematiche innescate da questa crisi. Tutto questo comporterà inevitabilmente un aumento del rischio. Chi garantisce infatti la sicurezza?
Diciamo che la sicurezza è una sintesi di una cultura organizzativa che parte dal top management e arriva, passando per tutti i livelli di un azienda, fino al personale di front-line, i piloti. Questo sensibile aumento del rischio e la riduzione dei margini e delle risorse disponibili porteranno ad una pressione enorme sul pilota: la conseguenza è che un suo eventuale errore porterà a conseguenze irreparabili.
Ora se questo è, in tempi normali, vero per poche realtà del trasporto aereo mondiale, in questo momento la probabilità che si verifichino queste condizioni è estesa a tutti, nessuno escluso.
Non possiamo, in tutto questo, non affrontare anche un altro aspetto: un pilota non è un ingranaggio, una macchina a controllo numerico, un’isola. Un pilota è un essere umano e come tutti gli esseri umani, oltre ad avere bisogno del riconoscimento del proprio ruolo lavorativo, per avere una stabilità emotiva, deve avere una vita familiare gestibile e la possibilità di coltivare un minimo di socialità. Tutto questo contribuisce a raggiungere un equilibrio che è fondamentale per svolgere una professione che già prima di questo COVID era stressante e comportava uno stile di vita difficoltoso.
Possiamo elencare tutta una serie di incidenti, negli ultimi anni, che hanno visto atti illeciti compiuti da parte dei piloti, stressati sia da eventi esterni, ma correlati all’attività lavorativa: il caso emblematico è quello di Germanwings.
Questo ha costretto gli addetti ai lavori ad interrogarsi su come gestire lo stress in una popolazione così particolare di lavoratori. Si sono ipotizzate molte proposte, come erogare un supporto psicologico ad un pilota in difficoltà, sia per aspetti legati alla sfera lavorativa, sia in ambito personale.
Ma con la situazione che si sta creando non si può pensare di intervenire a posteriori con un supporto psicologico nel tentativo di aumentare la resilienza in una situazione così difficile. L’obiettivo dovrebbe essere diverso: trovare un modo per rendere la prospettiva lavorativa, nonché la vita personale, meno in balia degli eventi, o di manager senza scrupoli.
Ricordiamoci che un pilota ha la responsabili di centinaia di vite umane; non produce oggetti, lavorando in una linea di produzione verificabili immediatamente e sul posto. Parliamo di sicurezza proattiva proprio perché agire a monte per mitigare i rischi è un dovere morale.
Possiamo pensare che le compagnie aeree che sono pressate da una concorrenza fortissima, e spesso sleale, che sono spesso costrette a tagli dei costi indiscriminati per stare al passo con il mercato, da sole possano mettere in maniera collegiale delle barriere a questa situazione?
Il 12 Febbraio 2009 il volo Colgan Air 3407 precipitò nello stato di New York, provocando la morte di 45 passeggeri, 4 membri di equipaggio e una persona a terra. La commissione di inchiesta cercò di spiegare il comportamento apparentemente incoerente dell’equipaggio: la fatica operazionale fu individuata come causa principale di questa tragedia.
L’equipaggio era composto da due pendolari: il Comandante, non potendosi permettere un albergo, aveva passato la notte su una poltrona del centro equipaggi. Il primo ufficiale, abitando a Seattle, aveva effettuato un volo di 5 ore per posizionarsi ed era inoltre affetta da un forte raffreddore, ma aveva deciso di effettuare ugualmente il volo per motivi economici.
Fu inoltre evidente come questo non fosse un caso isolato, ma pratiche diffuse nella popolazione dei piloti di tutti gli Stati Uniti.
Grazie all’azione di lobbying dei familiari delle vittime fu emessa dalla FAA una nuova normativa sui limiti di volo per evitare il ripetersi di situazioni simili. Questa normativa comportò un abbassamento delle ore di servizio e l’introduzione di un sistema di gestione della fatica: nel 2010 il congresso USA legiferò che tutte le compagnie avrebbero dovuto dotarsi di un sistema di gestione della fatica al fine di creare una rete di protezione basata sulla quantificazione del rischio e sugli strumenti per evitarlo. Fu insomma compresa e imparata la lezione trovata una barriera al ripetersi di un evento così disastroso.
Ma cosa è successo in Europa negli ultimi anni?
Le FTL furono introdotte nel2008 con lo scopo di uniformare le regole per tutti gli stati UE. Fin dal 2006 il parlamento europeo si era avvalso della consulenza di EASA, nata nel 2003 come organò indipendente per redigere le normative di impiego dei naviganti aerei.
A sua volta l’EASA commissionò ad una società esterna, la svizzera MOEBUS AVIATION, uno studio medico scientifico per stabilire quali effetti sulle prestazioni psico-fisiche degli equipaggi avrebbero potuto avere le regole sui limiti di servizio e di volo allora in vigore.
La MOEBUS concluse che alcuni dei più lunghi periodi di servizio (duty period) permessi dalla SUB PART Q delle FTL, quando combinati con altri fattori inerenti la fatica, erano al di fuori dei limiti di sicurezza. Ma i rappresentanti delle compagnie aeree europee, sostennero di fronte al parlamento che le conclusioni raggiunte fossero irrilevanti.
Questa azione di lobbying fu sufficiente affinché si smettesse di continuare su questo filone di ricerca. Anzi, le nuove Flight Time Limitations furono il risultato di un compromesso meramente politico per soddisfare le esigenze delle compagnie aeree e i cambiamenti, laddove ne furono fatti, furono minimi e ben lontani da quelli suggeriti dal rapporto MOEBUS.
Ma, seguendo il ragionamento fatto in USA in occasione dell’incidente Colgan, non si doveva forse ragionare anche in questi termini dopo la tragedia di Germanwings?
Se dobbiamo prevenire, intervenendo su quei fattori che implicano una minaccia alla sicurezza, come la fatica, come possiamo contenere l’alienazione mentale al fine di proteggere il più possibile questa categoria e di conseguenza le persone che scelgono di volare come passeggeri?
Se applicate alla lettera, per come sono costruite, le FTL tengono conto solo di una condizione di fatigue: quanto può un pilota rimanere ai comandi di un velivolo prima di costituire un pericolo per sé e per gli altri?
Ma un ragionamento che parta da questi assunti si basa su un presupposto sbagliato: è come chiedersi quanto a lungo un ingranaggio di un macchinario può lavorare prima di usurarsi a tal punto da compromettere la linea di produzione.
Ma come visto ampiamente dopo i fatti di Germanwings, un pilota non è un ingranaggio; è un uomo.
Lo scopo delle FTL, a mio avviso, dovrebbe essere quello di garantire un benessere psicofisico a tutto tondo: come è possibile poter assentarsi per 7 giorni di fila da casa, tornare per 36 ore e poi ripartire per 7 giorni? Davvero pensiamo che sia possibile essere mentalmente equilibrati con uno stile di vita in cui gli unici parametri considerano l’essere umano come una macchina (senza differenze di sesso, di età, di cultura, di esperienza) uniformando tutto a numeri che perdono di per sé la variabilità umana nella sua complessità.
Ciò che importa, in una logica puramente industriale, è sapere di quanto tempo un essere umano ha bisogno per espletare le necessità fisiche e riposarsi, prima di rimetterlo a produrre.
Credo che questo passaggio sia fondamentale per l’immediato futuro del trasporto aereo: rimettere il pilota al centro del processo produttivo come baluardo della sicurezza, ma rimetterlo al centro vuole dire considerare la sua umanità, con le sue caratteristiche psico-fisiche associate alle sue esigenze affettive e sociali.
E le uniche a poter intervenire, così come fatto negli Stati Uniti, e a determinare un inversione di tendenza, sono le istituzioni europee che devono avere a cuore i propri cittadini.