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Centro Studi Stasa

FORMARE ALLA SICUREZZA

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di Gilberto Stea – socio STASA 

La prestazione umana genera out put dovuti agli impianti, alle attrezzature, ai manuali, alle regole, alle procedure e alle interazioni, soprattutto. Ma tutto ciò è stato previsto a monte di studi sui rischi che questo comporta, considerando proprio le interazioni? Possiamo pensare come esaustivi, la scienza e la tecnica senza tener conto dei contorni derivanti dagli utilizzatori finali?

La prestazione umana genera out put dovuti agli impianti, alle attrezzature, ai manuali, alle regole, alle procedure e alle interazioni, soprattutto. Ma tutto ciò è stato previsto a monte di studi sui rischi che questo comporta, considerando proprio le interazioni? Possiamo pensare come esaustivi, la scienza e la tecnica senza tener conto dei contorni derivanti dagli utilizzatori finali?

Il punto dal quale partiremo è una provocazione dettata dalla frase di Bainbridge:” il designer delle tecnologie e delle procedure prova ad eliminare l’operatore, ma poi gli lascia i compiti che non riesce a pensare e ad automatizzare fino in fondo”.

Quando siamo difronte ad un sistema organizzativo, ci aspettiamo che esso generi degli output già previsti, ciò può esser vero per alcuni aspetti, ma non per tutti, per la caducità del sistema di interazioni relazionali di cui è composta l’organizzazione. Dovremmo poter aver previsto quali comportamenti attenderci ma ciò non è sempre possibile, per quanto auspicabile.

Al fine di generare un comportamento atteso che porti alla logica conseguenza di un “lavoro ben fatto e in sicurezza”, dovremmo comprendere che il nostro comportamento è mediato sempre da una parte razionale ed una emotiva, ed è in questa relazione endogena tra il nostro cervello e le nostre emozioni che si perpetuano le nostre azioni, anche nelle migliori nostre intenzioni.

Sappiamo che:

–           utilizziamo il 10% del nostro cervello e che dovremmo imparare ad utilizzare il restante 90%.

–           la modalità in cui assumiamo le decisioni è fatto secondo un pragmatismo razionale di fondo

Oggi dovremmo sfatare questi due grandi luoghi comuni:

Aberkane afferma che questa idea che abbiamo costruito nel tempo con affermazioni e studi, oggi non sia più realistica. Quando diciamo che utilizziamo il 10% del nostro cervello, a cosa ci riferiamo esattamente? Alla massa, ai neuroni, all’energia di consumo? È come dire che utilizziamo il 10% delle mani o del nostro corpo, quando in realtà il nostro cervello è già di per sé impegnato nelle normali attività di sopravvivenza (respiro, battito cardiaco, pressione, digestione, equilibrio, pensiero), anche in stato di incoscienza o pseudotale.  

Nessuno sa con precisione a cosa ci si riferisca con assoluta certezza.

L’altro mito da sfatare sta nel “come” prendiamo le nostre decisioni.

Pensiamoci, quando ci troviamo difronte ad un problema come cerchiamo di risolverlo? Quali strategie adottiamo? Priorità, importanza, necessita? Ognuno di noi pensi al momento in cui deve prendere delle decisioni in funzione delle quali dipende la buona riuscita di una attività di sicurezza.

Rifacendoci alla teoria dell’utilità attesa (Expected utility Theory), partiamo dall’assunto che essa, si basa su due principi fondamentali:

–           la coerenza

–           la massimizzazione

ciò significa agire sulla base di una forma di razionalizzazione che non tiene conto delle emozioni, dell’aspetto cognitivo in generale di cui il genere umano è composto.

            Ogni decisione presa è formata da questi due aspetti, la razionalità e l’emotività.

Se decidessimo di acquistare un biglietto della lotteria, cosa staremmo acquistando realmente? La realtà di una vincita (in)certa, o, l’emozione che deriva dal solo pensiero della vincita?

Uno degli esempi più interessanti è proposto dalla filosofa Philippa Foot, attraverso il “Dilemma del carrello ferroviario”. L’esempio in origine parlava di un tram, ma in questo caso parleremo di carrello ferroviario, più pertinente per il contesto ferroviario. Il dilemma del carrello ferroviario consiste nel prendere una decisione difronte a due situazioni paradossali ma concrete di portare a spegnere la vita di 1 o 5 persone, a seconda della soluzione che si prenderà nell’azionare una leva del carrello. È appropriato spegnere la vita anche di una sola persona per salvarne 5, secondo la logica della razionalizzazione e massimizzazione? Difronte a queste situazioni, non è sempre scontato sapere come agire, cosa fare o non fare, rimanendo di fatto “congelati” nella “non azione” che assumerà un significato univoco. Formare alla sicurezza, implica un processo educativo che tenga conto di questi due aspetti, inerente soprattutto alla formazione tipica degli adulti, i quali avendo esperienze, vissuti e approcci diversi alla cultura lavorativa, hanno la necessità di confrontarsi sui temi della sicurezza attraverso la reciprocità, ovvero la condivisione del mondo che li circonda con chi fa di mestiere, il formatore.

Il che, presume non solo la legittimazione dei decreti a supporto della sicurezza, qualunque essa sia, ma anche e soprattutto delle modalità di comunicazione che fanno riferimento ad essa e che supportano la formazione stessa. Come posso formare alla sicurezza ed essere compreso da tutti? Quali le modalità comunicative da adottare per la trasmissione di concetti complessi? Dove porre maggiore enfasi, ai contenuti, di per sé importanti o alla relazione che si instaura tra i formandi e i relatori e di conseguenza tra i colleghi e il gruppo dei pari?  Ricordiamo che talvolta anche i relatori sono formandi in altre circostanze, di altri relatori, poiché è insita nella mentalità del formatore, quella di formarsi a sua volta, sviluppando un circolo virtuoso inerente a modificare il suo percorso, destrutturandosi e ristrutturandosi per aprirsi a nuove conoscenze di contenuti e relazioni. Quali sono i limiti del formatore e quali quelli dei discenti? Nel processo di apprendimento, si dovrebbe tener conto che non tutti apprenderanno allo stesso modo, seppur i contenuti espressi saranno i medesimi, questo presuppone che il formatore dovrebbe conoscere, ancor prima di entrare in aula, sia chi siano i discenti che avrà difronte, cosa non impossibile ma poco probabile, a meno che non ci si trovi difronte a colleghi, ma anche in quel caso vi saranno dei limiti derivanti dalla mancanza di una certa confidenzialità, sia quali

le metodologie formative da adottare . L’obiettivo, generare competenze capaci di soluzioni nel contesto della sicurezza.

Secondo la definizione derivante dall’Isfol, (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) la competenza viene ad essere strutturata in tre cluster, denominati competenze di base, competenze trasversali e competenze tecnico-professionali, che si realizzino attraverso la diagnostica delle caratteristiche dell’ambiente e del ruolo in cui si opera, il sapersi relazionare con le caratteristiche dell’ambiente sociale e del compito tecnico che si ricopre.

Secondo il D.Lgs. 81/08, la formazione è un processo educativo e culturale attraverso il quale trasmettere conoscenze utili ad acquisire competenze, pertanto la formazione è cultura, educazione ed istruzione.

Secondo la UE, entro il 2030, almeno il 60% di tutti gli adulti dovrebbe partecipare ogni anno a attività di formazione. Il traguardo è ambizioso. Nel 2016, l’ultimo anno per cui ci sono dati disponibili, nessun Stato membro toccava questa percentuale. Solo la Svezia ci andava vicina con un 58% mentre l’Italia si fermava poco sotto il 34%, a qualche punto dalla media continentale del 34,7%.

Appare evidente che la formazione implica un processo che sia ridondante nel tempo al fine di instaurare quel cambiamento culturale, in tema di sicurezza, sia nel Datore di Lavoro che nei lavoratori stessi, a cominciare dalla parte alta del management. In effetti, l’art 15 del D.lg. 81/08 alla lettera n) prevede un’attività formativa a vantaggio anche dei dirigenti, oltreché dei preposti. La sicurezza è dunque, una sinfonia di aree differenti che sinergicamente interagiscono al fine di garantire la migliore qualità lavorativa possibile.

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